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Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla chiesa cattedrale dei Marsi in Avezzano
alla santa Messa per il saluto ufficiale alla diocesi dei Marsi

«Detesto gli accumuli di parole, perché in fondo, ce ne vogliono così poche per dire quelle quattro cose che davvero contano nella vita». Mi lascio guidare da questa testimonianza di Etty Hillesum, giovane morta ad Auschwitz. Rientro con voi nella casa del mio cuore e apro tre piccole stanze: la stanza della gratitudine, la stanza della memoria, la stanza dell’anima.
La stanza della gratitudine è una stanza affollata, non di numeri, ma di volti che sono stati con me e per me il segno della prossimità del Signore. Volti che hanno accompagnato il mio ministero nella collaborazione, nella fatica, nella partecipazione alle mie fragilità, nelle prove e nella gioia, e in quel legame invisibile ma immenso che è la preghiera. Non li elenco, non faccio nomi, ma a ognuno e a tutti il Dio fonte di ogni grazia riversi consolazione e doni umani e spirituali. In questi giorni mi sono chiesto: quanto tempo occorre perché un fatto, un’emozione si definisca in un pensiero? Ecco: quattordici anni di fatti, di emozioni, li colloco tutti nell’unico pensiero del cuore: grazie. Grazie è l’unico pensiero riassuntivo del mio cuore.
La stanza della memoria. Abbiamo attraversato insieme un periodo segnato da eventi che hanno profondamente inciso nella comunità ecclesiale e civile, non ultimo la fase più acuta della pandemia. Una grande notte che ha scavato sofferenze, lutti, fragilità diffuse, disorientamenti, precarietà del lavoro. Ma la terra marsicana con i suoi sacerdoti e diaconi, con le istituzioni civili e militari, con le forze imprenditoriali, con le sue comunità parrocchiali e religiose, con i suoi volontari, con le sue aggregazioni laicali, ha saputo sentirsi popolo. Popolo non abbandonato, popolo fiero della sua storia e della sua anima più vera e profonda. E dentro questo orizzonte comunitario colloco la mia personale memoria. Non voglio isolarla ma unirla alla memoria del popolo marsicano che Dio e la Chiesa mi hanno affidato, e la riempio con le immagini degli sguardi e degli incontri che abbiamo avuto attorno alla mensa eucaristica e lungo le strade dei nostri paesi. Come è stato scritto, ed è profondamente vero, «un incontro non si sceglie ma si prende come un destino, e quando è avvenuto è compiuto per sempre» (Dacia Maraini). Non faccio bilanci sulle cose fatte e quelle non fatte. La Chiesa non è un’azienda e il vescovo non è un amministratore delegato. E poi i bilanci li lascio a chi ama mettere le personali vedute sulla propria bilancia, senza mai entrare nella complessità dei fatti e delle cose; a quanti, come la Regina di cuori nella favola di Alice nel Paese delle meraviglie, ordinano che prima sia pronunciata la sentenza e poi si ricostruiscano i fatti. Abbiamo attraversato insieme, come detto, un tempo segnato da eventi, ma è altrettanto vero che è stato un cammino di incontri. Ognuno di noi è gli incontri che ha vissuto. Tutto il vangelo può e deve essere letto come una storia di incontri, come la storia di Dio che viene a incontrare l’uomo. E la storia dell’uomo che accoglie, rifiuta, si lascia abbracciare, si divincola. Ma poi per tutti, per me e per ognuno, deve accadere l’incontro decisivo, quando si arriva a dire a Gesù: «Tu sei l’appagamento inquieto nel tempo e sarai l’appagamento senza fine nella festa eterna». Direbbe un mistico: «Cristo è un fuoco e io sono come una farfalla che strepita attorno alla fiamma e poi mi butto dentro e ardo, fino a dissolvermi per poter dire, come Paolo, non sono più io che vivo ma è Cristo che vive dentro di me». Ma c’è una domanda: come conservare e custodire la stanza della memoria? Assumo la pagina letteraria di un testimone del nostro tempo. «Per lui il miglior modo per tenere vivi gli amori è coltivarli nell’assenza, da lontano, conservando il loro prezioso ricordo che resta inalterato nella distanza. Visse per tutta la vita il dono della nostalgia» (Marcello Veneziani). So che quanto vi sto dicendo non è un linguaggio ecclesialese. Il saluto di un vescovo, in genere, dovrebbe riproporre alcuni linguaggi convenzionali, voi però prendetemi come sono. Non ho mai creduto in una Chiesa che si affida alle proprie strutture, alle sue carte, alle sue progettazioni per collocare Gesù nella storia. Non ho mai creduto in una Chiesa che si affida ai suoi linguaggi iniziatici. Ho sempre creduto in una Chiesa che cammina con il rischio di sbagliare: l’ho fatto tante volte, lo facciamo tutti. E corre il rischio anche di peccare, lo facciamo tutti. Ma credo in una Chiesa che costruisce sé stessa come il segno della misericordia del Signore e, per questo, diventa casa dell’incontro, dell’amicizia, della fraternità. Il cammino sinodale voluto da papa Francesco, che investirà la diocesi e tutta la Chiesa, in tutte le sue fasi di narrativa, sapienzialità, profezia, attraverso i suoi gruppi sinodali diffusi sul territorio, vuole essere un cammino di rigenerazione interiore e non di ulteriori strutture da mettere in campo, nell’ascolto, nell’incontro, nell’annuncio vibrante della Parola fatta carne in Gesù. Con il vescovo Giovanni, il sinodo diocesano, ne sono sicuro, sarà per tutti un cammino straordinario rivestito di bellezza, perché oggi è tempo di viaggiare verso l’uomo, non è più tempo di circumnavigare il perimetro del proprio cortile.
E, infine, la stanza dell’anima. Qui, nella stanza dell’anima, ci sono tutti gli affetti. Quelli che ho donato e che ho ricevuto, quelli compresi e quelli incompresi, quelli evidenti e quelli nascosti, quelli trasmessi con le parole e con i gesti e quelli che le parole e i gesti non riescono mai a contenere. Quegli affetti che la gente marsicana, nella sua essenza più profonda, tiene quasi in serbo, con pudore, come un tesoro prezioso che poi diventa storia di legami che uniscono il cielo e la terra. Così, l’abbraccio corale che abbiamo dato a Tonino, a Gian Mauro, a Gianmarco, a Valeria (morti su valle Majelama lo scorso inverno) è stata la metafora del volto di bellezza della gente marsicana. Un volto che poi diventa cultura diffusa, prassi di vita, esercizio di condivisione. Un volto che non dobbiamo deturpare, ma da cui ripartire, credenti o diversamente credenti, per coltivare una nuova stagione della nostra terra. Una stagione nuova di coraggio, di speranza in tempi come i nostri che siamo chiamati a comprendere nelle sue luci nascoste dentro le notti che oscurano la chiarezza del cammino. Ognuno di noi ha sperimentato e sperimenta queste notti. Il nostro grande conterraneo, Ignazio Silone, in Vino e pane ci ammonisce: in tempi tormentati diventa urgente “salvare il seme”. Collego queste parole a un film straordinario, Il profumo del mosto selvatico. C’è una famiglia che vive abbracciata a un vigneto. Poi disorientamenti, crisi familiari, lo sfilacciamento dei rapporti e infine il grande vigneto che va a fuoco. Ma il ceppo originario del vigneto rimane intatto, non brucia. E questo ceppo rimasto verde e intatto fa rinascere la speranza a quella famiglia, una nuova capacità di amare e di percorrere con volti nuovi il cammino della vita. La fraternità è questo essenziale, è questo il ceppo originario, è questo il seme da salvare. Tutti dobbiamo salvarlo per consentire alla Chiesa e alla società di ripartire ogni giorno diversi e di non essere una storia di sentieri interrotti. Una Chiesa senza fraternità oscura la presenza di Gesù nella storia. Una società senza fraternità è un deserto di maschere. E non dimentichiamo che nella storia non ci sono soltanto le vittime e i carnefici, ma anche chi si limita a guardare, e così interrompe l’umano fraterno e accresce il disumano.
Per tutti arriva il tempo della sera, il tempo in cui si recitano i salmi della sera, in cui si grida l’invocazione dei discepoli: «Resta con noi, Signore». Un’invocazione che poi non è, e non sarà mai, un lamento perso nell’aria, perché Gesù lo ha detto: «Io sono con voi fino alla fine del mondo», e lui è qui e sarà sempre qui nell’eucaristia. E ogni eucaristia è sempre la locanda di Emmaus, dove il Signore mangia con noi il pane dell’eternità e ricompone i frammenti della nostra vita. Questo conta, questo vale, questo tiene. Il resto, come nell’ultima frase dell’Amleto di Shakespeare, «è solo silenzio». Sì, è soltanto silenzio. Amen.

 

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