Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla chiesa dei Santi Pietro e Paolo in Pescasseroli
Carissimo Giuseppe e carissimi tutti, facendo eco al brano del vangelo che è stato proclamato per questa celebrazione ho fatto una scelta che intende dare senso interiore e profondo a quanto stiamo vivendo. La scelta è quella di assumere e far assumere le parole del Signore nel vangelo di Giovanni: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). È stata una scelta fra le tante possibili, però Giuseppe a te consegno l’impegno di essere, nella dimensione diaconale, il segno sperimentabile dell’amore di Gesù, di essere discepolo e servo di questo amore, nella consapevolezza di annunciare la parola di Dio e del tuo futuro servizio sacramentale. Ma dentro questa consapevolezza, se il tuo servizio pastorale non sarà accompagnato e seguito da sentieri di amore incarnato, perpetueranno quella divaricazione tra il culto e la reale fedeltà al vangelo della croce e della risurrezione.
Parafrasando don Tonino Bello, «il vero vestito del diacono è il grembiule». Il diaconato deve essere una scelta di decisione. E sappiamo che tu questa decisine l’hai maturata. La decisione di camminare con Gesù e come Gesù ha camminato e cammina. La decisione di essere, come diacono, tenda di accoglienza di tutte le povertà e annuncio di salvezza e di compromissione di vita dentro le povertà. Il diacono oggi è chiamato a ridare carne e sangue a una parola che sta affogando nella palude della retorica: qual è questa parola? Servizio. Nessuna parola più di questa, oggi, è frantumata, e nessuna parola come questa identifica il diaconato e il sacerdozio. «Il Figlio dell'uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mt 20,28) dice Gesù. Il diacono è testimone di questa controcultura.
Il diacono non serve sé stesso, la sua immagine… ma serve e basta! Serve Cristo nella Chiesa e basta. Serve l’uomo e basta. Non sceglie dove servire ma si mette nelle mani della Chiesa e colloca se stesso là dove la Chiesa diocesana lo chiama a servire l’uomo. Il vangelo non è un cuscino dove dormire sopra, il vangelo è controcultura, è il rovesciamento del pensiero e dei gesti. Il vangelo è il rovesciamento del cuore che frantuma i parametri mondani del successo, della ricchezza, dell’avidità. Cristo è il grande rovesciatore. Cristo ci deve rovesciare perché se Cristo non ci rovescia non l’abbiamo mai incontrato. Certo, diciamo di credere in lui… sì, ma a volte noi cristiani siamo bravi a “barare sul cristianesimo”. Bariamo. C’è in giro una religiosità che il più delle volte cerca consolazioni, emozioni, vibrazioni, rassicurazioni. Una religiosità che poi non diventa mai fede. La fede è il radicamento su Cristo, è sequela radicale di Gesù che investe e rinnova cultura e prassi di vita.
Deve tornare la domanda del grande inquisitore a Gesù, nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Al Cristo che torna sulla terra, il grande inquisitore dice «Perché sei venuto a disturbarci?». Questa domanda oggi deve essere cambiata: «Cristo, torna a disturbarci!». Cristo, trova dei cattolici, dei cristiani che si lasciano disturbare da te! Torna a disturbare i nostri sonni, le nostre latitanze, le nostre piattezze interiori, i nostri codici. Torna a farci lavare i piedi da te, per finalmente comprendere che il gesto dell’ultima cena deve diventare per noi norma di vita. Torniamo a fare dare carne e sangue a queste parole, cominciando da me. Saremo riconosciuti come discepoli di Cristo, non dalle nostre parole ma dalla nostra vita di servizio, umile, quotidiano, reso stabile stando al di sotto degli altri. Chiediamoci tutti, cosa abbiamo fatto del comandamento nuovo? «Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 13,34).
A volte un sentimento retorico, sdolcinato, patinato di bontà… che copre ingiustizie, privilegi consolidati. Il profitto assunto come motore unico delle relazioni. Da una passione che doveva rinnovare coscienze e modelli di umanità e di società, stiamo passando a un consolidamento di tutto ciò che è vecchio. È vecchio il muro tra la cultura del possesso e la cultura del dono. È vecchia la divaricazione tra una religiosità formale, che conserva ciò che siamo e abbiamo, e una fede che deve andare oltre la gratificazione personale e deve cercare la felicità dell’altro. E questo vecchio ci avvolge come un tepore caldo e riposante. Ecco, Gesù torna a disturbarci! Torna a spazzare via le nostre borghesie mondane; torna a spazzare via i nostri clericalismi spacciati per fede.
Caro Giuseppe, annuncia sempre a te e agli altri un vangelo dolce ed esigente. Annunciando le implicazioni sconvolgenti del Calvario, là dove non scendere dalla Croce ci inchioda tutti in una libertà intesa come offerta totale di noi stessi a Gesù che continua la sua agonia e la sua risurrezione nei fratelli. Cristo è in agonia fino alla fine dei tempi, Cristo è risorto fino alla fine dei tempi. Servi l’eucaristia, mai come un rito estetico, ma vivila come la nuova alleanza che rende presente, vero e attuale l’amore discepoli. Ama e servi questa diocesi dei Marsi, è tua madre ed è una Chiesa bella, ricca di tante energie per il vangelo, sia per te come un grembo sempre fecondo dove guardare il Cristo e dove alzare gli occhi verso il cielo. Gesù: ieri, oggi, sempre. Il Cristo nostro contemporaneo. Caro Giuseppe auguri, e sii forte, dolce ed esigente! Amen.