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Omelia di S.E. Mons. Pietro Santoro
dalla chiesa di Santa Vittoria in Carsoli

Carissimo Angelo, ora mi rivolgo a te: con l’ammissione inizia per te il tempo del discernimento forte, discernimento di preghiera nella pace di Dio e nell’afflato dello Spirito. Un discernimento che, se è volontà di Dio e della Santa Chiesa, ti porterà all’altare. E quello che dirò a Paolo, inerente il diaconato, vale anche per te e vale per tutti, perché mette in gioco il comune ministero e il comune servizio alla Chiesa. Caro Paolo, non vivere questa celebrazione come un fatto che appartiene alla tua biografia privata. Il tuo essere diacono dovrai viverlo fino in fondo, come un lungo e profondo ministero di incarnazione nel cuore del mistero della Chiesa e nella logica che Dio ha iscritto nel ministero della Chiesa.
Per chi si è diacono? Perché si viene consacrati diacono? Il diaconato non è un’avventura spirituale personale. Si è diaconi per assumere la missione della Chiesa. La missione di una Chiesa che non vive per sé stessa, ma che è stata ed è continuamente voluta per essere narrazione di Dio, narrazione di salvezza, di speranza, di amore, di misericordia. Il diacono non è chiamato a raccontare sé stesso, ma è chiamato nel servizio della parola, dei sacramenti e della carità. Il diacono diventa il testimone di una Chiesa consapevole della sua missione e del suo destino. La Chiesa non è un prodotto della storia, non è un’evoluzione della storia, ma è scaturita dalla croce e dalla risurrezione del Signore: di questa Chiesa noi siamo i ministri. Noi siamo quelli che fanno vedere il Signore che passa. Non lo dobbiamo nascondere, dobbiamo farlo vedere. E lo nascondiamo quando facciamo vedere soltanto noi stessi, soltanto le nostre immagini. Il ministro non afferma sé stesso, ma è chiamato ad affermare la visibilità del Signore nella sua vita e a gridare a tutti il desiderio che riassume ogni desiderio terreno: il desiderio di Cristo e della sua Chiesa, affinché il popolo di Dio abbia la coscienza di appartenere a Cristo e di essere nel mondo presenza di Cristo. Tutto si lega.
Ecco la domanda che innanzitutto rivolgo a me stesso e poi insieme ci rivolgiamo: quale Chiesa siamo chiamati a costruire? Quale Chiesa? Liberandoci da tante impalcature inutili e ricentrando l’essenziale. Le risposte sono tante e tutte impegnative, ne dico soltanto tre.
La prima, che può sembrare scontata ma è oggi rivoluzionaria: siamo chiamati a costruire una Chiesa modellata dal vangelo. Una Chiesa che si lascia spogliare dal vangelo e che diventa essa stessa pagina aperta e trasparente del vangelo. E queste non sono parole retoriche ma dimensioni che provocano una potatura drammatica sul nostro essere credenti. Non più una Chiesa abitata da consumatori del sacro o da funzionari del sacro. Non più una Chiesa che gioca con il denaro ma la Chiesa che papa Francesco incarna nella sua persona e nel suo magistero. Quante volte abbiamo sentito l’espressione di papa Francesco, che poi è la cifra del suo magistero e magari l’abbiamo anche snobbata, una «Chiesa povera per i poveri». Povera per i poveri, e noi poveri per i poveri e quindi liberi da ogni mondanità, per essere quelli che toccano e accolgono Gesù nella carne di quanti soffrono la precarietà dell’esistenza, la croce dell’esistenza. Paolo, tu sai benissimo cosa vuol dire perché la tua vocazione è maturata nell’esperienza della fraternità Mater indigentium. Noi dobbiamo essere quelli che ogni giorno si rendono degni di cantare le beatitudini, perché nelle beatitudini non edulcorate da esegesi spiritualistiche c’è tutto il vangelo che modella la Chiesa.
La seconda risposta: dobbiamo costruire una Chiesa che evangelizza, una Chiesa missionaria. Cito la Lumen gentium: «come madre che ci insegna a parlare il linguaggio della fede e che trasmette la fede attraverso l’asse del tempo di generazione in generazione». Mi piace vedere la Chiesa come la bellissima immagine della chioccia che accoglie e nutre i suoi pulcini, sotto le sue ali. Oggi attraversiamo un grande rischio, stiamo diventando tutti delle isole che non si sentono un anello con le generazioni che ci hanno preceduto e non si sentono depositari di speranza per le generazioni che verranno. Ho l’impressione che ognuno stia recitando il copione della sua biografia. Una biografia che non genera piante nuove ma soltanto radici secche ed essiccate. E le prima vittime, allargando lo sguardo, sono i ragazzi e i giovani, vittime ed orfani di ragioni per cui vale la pena di vivere e di morire. Orfani di un cuore non perforato dall’infinito. Costruiamo una Chiesa missionaria, che non sta sulla soglia ad aspettare ma si muove, si muove, si muove.
La terza e ultima risposta: costruiamo una Chiesa che educhi al senso della vita. Oggi c’è uno smarrimento sociale e culturale del senso della vita. Quando non si sa più perché si vive allora tutto è possibile. E questo compito, se oggi non lo svolge la Chiesa, chi deve svolgerlo? Capire e far capire che la vita non è un numero buttato come un oggetto, o come una pallina nel movimento di una roulette. La vita è veramente compiuta quanto diventa interrogazione e risposta a quello che Dio ha pensato per ciascuno di noi.
Paolo e Angelo, vi affido alla Vergine santissima dei bisognosi affinché guidi i vostri passi verso un amore condiviso, condiviso perché non scinde l’amore verso Dio dall’amore verso il prossimo. Ci affidiamo tutti a lei, Maria ci metta la grazia di non essere credenti dal cuore spento ma credenti che vedono e che fanno vedere, che riflettono e che fanno passare il volto del Signore. Attraverso di noi deve passare il volto del Signore, il volto di una luce che non tramonta. È il volto di Gesù che deve passare attraverso di noi, compito gioioso e pragmatico nello stesso tempo e l’unica luce che non tramonta mai. Auguri Paolo, auguri Angelo! Auguri a tutti.

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