Omelia di S.E. Mons. Giovanni Massaro
dalla chiesa cattedrale di San Bartolomeo in Avezzano
per l'ordinazione presbiterale di Angelo Di Bucchianico
Festa della Cattedra di san Pietro, 22 febbraio 2022
La festa liturgica della Cattedra di san Pietro ci vede raccolti come comunità diocesana per unirci al canto di lode che don Angelo eleva al Signore per il dono del presbiterato. È un momento di grazia che vogliamo vivere con stupore e gratitudine. Saluto i familiari di Angelo, gli amici venuti dal suo paese d’origine, e tutti voi presbiteri, religiosi, religiose, diaconi, seminaristi e fedeli laici qui presenti.
La pagina evangelica (Mt 16,13-19) ci ha proposto un episodio che a noi tutti è abbastanza noto ma di una ricchezza inesauribile. Lasciamoci pertanto raggiungere dalla Parola ascoltata. Gesù va con i discepoli nei territori di Cesarea, la città fondata trenta anni prima dal tetrarca Filippo, figlio di Erode il grande. E proprio là dove Cesare è venerato come divino, proprio in una città edificata in suo onore, ecco l’occasione per raggiungere i suoi discepoli e interrogarli.
Le domande di Gesù ci raggiungono spesso quando meno ce lo aspettiamo. È stato così anche per te, carissimo Angelo. Dopo un cammino con i frati minori, nel 1999 eri tornato alla tua vita di sempre impegnando il tuo tempo nel lavoro, in famiglia, con gli amici. Ma nel 2017, quando pensavi che ormai quella fiamma avvertita durante gli anni della tua maturità fosse spenta per sempre, ecco che il Signore si è rifatto prepotentemente vivo nella tua vita.
«La gente chi dice che io sia?», chiede Gesù ai discepoli. E i discepoli riferiscono che la gente pensa che Gesù sia un profeta, uno dei grandi profeti presenti nella memoria collettiva d’Israele. A questo punto la domanda arriva esplicita, diretta: «Ma voi, chi dite che io sia?». Una domanda chiara di fronte alla quale non è possibile sfuggire o rimanere neutrali, né rimandare la risposta o delegarla a qualcun altro. Prima di tutto c’è un «ma» avversativo. Come se Gesù dicesse: «Lasciamo ora perdere ciò che dice la gente, perché non si può credere per sentito dire. Voi che siete con me da anni, che cosa sono io per voi?».
In questa domanda è il cuore pulsante della fede: «Chi sono io per te?». Gesù non cerca formule o parole, cerca relazioni. La sua domanda assomiglia a quelle degli innamorati: «Quanto conto io per te? Che importanza ho nella tua vita?». A Gesù non interessa avere informazioni su di sé, non ha bisogno di sapere se è più bravo degli altri maestri. Gesù vuole sapere se Pietro è innamorato, se gli ha aperto il cuore.
La risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Cioè: «Tu sei la mia vita. È in te, dice Pietro a Gesù, che io ho trovato la vita». Carissimo Angelo, questa domanda Gesù l’ha posta a te, e l’ha posta ai consacrati qui presenti. Accogliere una chiamata significa dire a Gesù: «Tu sei la mia vita, tu sei il centro della mia vita». Stiamo attenti. Essere preti non necessariamente significa aver posto Cristo al centro della propria esistenza. È possibile che al posto di Cristo, al centro della nostra vita ci siano i nostri disegni e non necessariamente ambiziosi, i nostri capricci, i desideri di primeggiare. Quando il nostro cuore non è occupato da Cristo possiamo legarci al potere, al denaro o addirittura a forme pericolosissime di dipendenza come il gioco o l’alcol. Senza Cristo diventiamo mestieranti, preti mediocri che vivono senza entusiasmo e senza passione.
Non passi giorno, carissimo Angelo, senza porti questa domanda: «Quanto conta Cristo nella mia vita, nella consapevolezza che solo la preghiera ci aiuta a fare di Cristo il fondamento della nostra esistenza?». Alla base di tante crisi sacerdotali vi è una scarsa vita di preghiera, una mancata intimità con il Signore.
«Beato sei tu, Simone, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». È Gesù che prende l’iniziativa. Non è Pietro che si autocandida. La vocazione al sacerdozio è chiamata di Dio. Non è mai autoconvocazione.
Abbiamo ascoltato poco fa: «Reverendissimo padre, la santa madre Chiesa chiede che questo nostro fratello sia ordinato presbitero». La chiamata di Dio giunge a noi attraverso la Chiesa e se la madre Chiesa riconosce che un proprio figlio non è chiamato al sacerdozio è richiesta ugualmente docilità e obbedienza. Obbedire significa ricordarsi che nessuno può dirsi detentore della volontà di Dio e che essa va compresa solo attraverso il discernimento che la Chiesa ci aiuta a vivere.
«A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». La chiamata al sacerdozio, carissimo Angelo, è dono e impegno. Con l’ordinazione presbiterale ti vengono affidati degli impegni ben precisi, ti viene affidata una responsabilità nei confronti di una comunità. Non siamo preti per noi stessi, siamo preti perché ci viene affidato un popolo. Sei chiamato ad alimentare i sogni delle persone che ti vengono affidate, a indicare la via che porta alle mete più alte. Tante volte non ti capiranno; non ti preoccupare, vai avanti. Ci saranno infatti momenti in cui ti loderanno, ma verranno anche ore di ingratitudine e di rifiuto. La vicinanza con Gesù ci invita a non temere alcuna di queste ore non perché siamo forti bensì perché ci stringiamo a lui.
Ti confido che questa vicinanza al Signore è la mia vera forza nei momenti più bui. Il pastore deve sempre agire per il bene delle pecore, mai per ricevere consensi. Non può diventare prete chi ricerca consensi, e tanto meno vescovo. E per il bene tante volte del popolo affidato, si è costretti a dire di no e a risultare impopolari. Non fa niente. Un pastore che vuole accontentare tutti rischia di scontentare tutti. Questo l’ho imparato dal mio papà, sempre molto esigente nei miei confronti. Quando ero ragazzino non capivo tanti suoi dinieghi. Li ho compresi da grande e ora lo ringrazio. Quando concordai con il mio vescovo la data della mia ordinazione presbiterale, ventinove anni fa, corsi da lui per dargli la bella notizia. «Non so se essere felice – mi disse il mio papà – lo sarò nella misura in cui sarai un bravo prete, umile e generoso». Quando il mio papà dieci anni fa è morto, ho trovato nel suo portafoglio questa preghiera: «Dammi, o Signore, figli che abbiano conoscenza di te, guidali, ti prego, non sul facile cammino degli agi ma su quello delle asperità e dei cimenti. Dammi figli dal cuore puro e dagli alti ideali; figli che sappiano dominare se stessi prima di voler dominare gli altri. Falli umili, perché ricordino sempre la semplicità della vera grandezza; rendili generosi, perché solo l’amore conta nella vita e nell’eternità. Allora io, il padre, oserò dire sottovoce: Non ho vissuto invano».
Carissimo Angelo, ho apprezzato da subito in te l’umiltà e la generosità verso tutti, soprattutto verso chi è nel bisogno. È la mia prima ordinazione presbiterale e non avrei mai immaginato di ordinare un presbitero dopo pochi mesi dalla mia ordinazione episcopale, e per di più di età più grande della mia, a indicare che Dio è imprevedibile e che i suoi tempi non sono i nostri tempi. Tutto è grazia. Non immagini la mia grande gioia e profonda emozione.
Ritengo infine importante sottolineare che la tua ordinazione sacerdotale avvenga in un tempo ben preciso, segnato ancora da una situazione sanitaria incerta e non ancora del tutto superata, a indicare che il Signore ti chiama a fasciare le ferite degli uomini di oggi.
«Io vedo la Chiesa – ha affermato papa Francesco – come un ospedale da campo dopo una battaglia. È inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti! Si devono curare le sue ferite». E vieni inoltre ordinato nel pieno di un cammino sinodale, a indicare che il Signore ti chiama ad essere vicino ad ogni uomo e a saper camminare con tutti.
Vicinanza e compassione indicano uno stile ben preciso con cui il Signore ti chiede di vivere il tuo sacerdozio. Io sarò al tuo fianco come padre e fratello.
Buon cammino e tanti cari auguri.